Mancavano pochi minuti alle nove del mattino, quel venerdì 24 maggio del 1844, quando Samuel Morse lanciò, da Washington, in direzione di Baltimora, il primo messaggio telegrafico, a trasmissione elettrica, con conduttore a filo. In quel primo telegramma, trasmesso all’amico Alfred Hewis Vail, Samuel Morse riportò (ticchettando sulla tastiera; con il codice dei punti e delle linee, da lui creato per quel genere di comunicazione) una frase dei Numeri della Bibbia: “What Hath God Wrought" che tradotta in italiano significa "Quali cose ha creato Dio".
In quel preciso istante, stando alla tesi deal sociologo canadese Marshall McLuhan, s'inaugurò una nuova epoca, quella del “Villaggio Globale” che si caratterizzò, da lì in poi, per due aspetti. Innanzitutto per il cambiamento, che avvenne, nei mezzi di comunicazione di massa e poi nel mutamento, che accadde, nei “processi tecnologici” intesi come “medium”. L'altro elemento che ha caratterizzato la nascita del “Villaggio Globale” è stato il passaggio dall’era della meccanica, alla stagione elettrica, preludio, a sua volta, di una successiva “svolta elettronica” che avrebbe introdotto - “a cascata” - alla nascita sia della “dimensione informatica” e sia della “tipologia digitale”.
Da allora sono trascorsi centosettanta anni, carichi di sorprese, di stupori, d’incanti e di meraviglie che si sono manifestate, a mano a mano, nel tempo e nello spazio, una dietro l’altra, come non mai era accaduto prima, nella storia del passato: non solo per la quantità di eventi che si sono consumati (nell’arco di poco più di un secolo) ma anche per la “portata” stessa dei fiammanti “svelamenti” e delle nuove scoperte, che si sono registrati. E in tutto questo ha fatto da imperativo: la piena consapevolezza del potere dell'energia.
In tempi molto recenti con la scoperta del “bosone di Higgs” quale «particella elementare che dona la massa» (altrimenti nota come «la particella di Dio») si è compreso, in maniera molto più precisa, di quanto non sia accaduto in passato, che l'energia ha preceduto la nascita della materia. Fin tanto da spingere la scienza a sostenere la tesi che la vita deriva dall'energia: la quale rappresenta, a sua volta, in una logica di Fede, prima di diventare una tesi scientifica: l'incipit, il Fiat Lux, il Sii, Che diede luogo all'universo confermando, attraverso questo principio, la tesi escatologica che "il mondo dell'esistenza si originò per il calore sprigionato dall'interazione fra la forza attiva e ciò che ne è il recipiente" (Bahá'u'lláh, Tavole di Bahá'u'lláh).
In particolare, oggi si sa che la “dimensione energetica” muove non solo l'universo, ma tutte le cose. Oggi si sa, anche, che l'energia (quando è associata ad una “radiazione elettromagnetica”) viene trasmessa in piccoli “pacchetti” che sono inseparabili tra loro. E che sono definiti “quanti”: ognuno dei quali è associato, a sua volta, a delle particelle prive di massa, che sono qualificate come “fotoni” in grado di trasportare grandi quantità di energia. E ancora. Oggi si sa (non si sapeva prima) che le “radiazioni elettromagnetiche” agiscono come delle particelle capaci di trasferire energia, su precise frequenze e lunghezze d'onda.
Questo accomuna, di fatto, il suono con il colore. Oggi sappiano, altresì, che il suono non si trasmette nel vuoto, mentre il colore della luce, non risente della condizione dello “spazio vuoto” e del “vuoto quantistico”: che sono connessi, a loro volta, con la “natura fisica” del cosmo. E non basta. Oggi sappiamo, per di più, che il suono consente a ogni singola “particella atomica” di vibrare nello spazio e sappiamo, pure, che queste vibrazioni rappresentano, di fatto, la struttura portante dell'intero universo.
Moderni mistici Sufi sostengono, a questo proposito, che “da un ammasso di galassie lontano duecentocinquanta milioni di anni luce ci arriva una nota: un si bemolle continuo, un milione di miliardi di volte più basso dei suoni più bassi che l‘orecchio umano può percepire. La materia è vibrazione. Le vie della fisica quantica e del misticismo (...) si stanno unendo” (Gabriele Mandel Khān). E anche l'arte, sta subendo, oggi, questo processo di avvicinamento sul piano teorico, in un “afflato poietico” e “vibrazionale” (sul piano creativo e intellettuale) che investe la fisica quantistica e finanche le neuroscienze. Come dire: oggi sappiamo che l'essere umano fa parte dell'universo ed è “uno” in esso, con esso e con tutte le cose che questo manifesta.
Al di là, comunque, di quale sia la nota esatta che regge l'intero cosmo, sta di fatto che questo “fonema vibratorio” (come dimostrato dalle moderne conoscenze in campo scientifico) consente alle galassie di volteggiare, girando su se stesse, quasi come una trottola; con un “moto a spirale” che rimanda, a sua volta, all'immagine del “codice genetico”. E quindi alla struttura stessa del DNA. Come dire: il tutto è nell'essere umano e il suo codice genetico, la sua struttura molecolare, sono uno specchio dell'ordine cosmico che “governa” gli astri e la materia. E da qui che bisogna partire, oggi, per leggere, in maniera nuova, la storia dell'arte, non soffermandosi solo sui “rapporti estetici” (prospettiva, profondità, equilibrio, simmetria, etc.) ma tenendo in considerazione le energie (le frequenze, le vibrazioni, etc.) che “muovono” le sensazioni e i pensieri.
Per quanto riguarda, invece, la luce, oggi possediamo le opportune conferme scientifiche, che essa si diffonde nello spazio, attraverso dei “movimenti ondulari” di differente lunghezza d'onda. E non basta. Oggi sappiamo, in aggiunta, che a ognuna di queste onde, corrisponde un colore. E che ogni colore possiede un suo calore, che si riflette nell'intimità dell'individuo.
E se è vero che il suono rappresenta l'oscillazione di un elemento materiale, è altrettanto vero che il colore costituisce, in se stesso, la vibrazione di un campo elettromagnetico. Questi due “elementi vibratori” (comuni) consentono, di fatto, di poter avvicinare – dal punto di vista concettuale - il suono al colore, e viceversa. Questo particolare aspetto ha spinto alcuni artisti, moderni e contemporanei, a esplorare la “contaminazione” (qui intesa come “condizione di contagio”) che esiste tra i sensi (considerati come organi percettivi che ricevono, dall'esterno, delle sensazioni) e la reazione che deriva (prima in maniera interna e poi esteriore) da parte dell'individuo.
Questa è quella che si chiama “Sinestesia” che rappresenta, di fatto, una delle formidabili meraviglie che sono scaturite dopo l'avvento del “Villaggio Globale”. Si tratta di campi di ricerca artistica e di sperimentazione creativa, molto affascinanti: condotte a metà strada tra la pittura e la musica affinché, un giorno, queste due realtà, possano incrociarsi, del tutto, tra loro. Si tratta, non c’è che dire, di una nuova “via percettiva” dalla quale l'arte troverà presto beneficio. Questo tipo di sperimentazione creativa ha trovato - agli inizi del Novecento - due formidabili sostenitori: sia nel compositore e pianista russo Aleksandr Skrjabin e sia nel pittore, anch'egli russo, Wassily Kandinskij. La loro audacia e persistenza nel tentare d'individuare l'elemento che accomuna il suono con il colore, e viceversa, rimanda a una pura visione filosofica, molto antica, che appartiene al filosofo Pitagora, che nel libro “La Musica delle Sfere” sosteneva che “esiste un punto in cui l'armonia musicale e quella spirituale convergono”. (leggasi su quest’argomento: “Installazione interattiva, sulla corrispondenza tra suono e colore”, Karmil Cardone)
A guardare la velocità che ha assunto, oggi, la storia: tanto l’arte, quanto la scienza sembrano, oggi, procedere nella stessa direzione, con l'energia al centro di tutto. Basti guardare, a questo proposito, alle scoperte scientifiche e tecnologiche che sono scaturite all’indomani dell’invenzione della corrente elettrica. E basti pensare, sempre a questo riguardo, alle argomentazioni filosofiche ed escatologiche (e alle manifestazioni creative) che si sono sviluppate da centosettanta anni a questa parte: in un tempo che potremmo definire “breve” e “lungo” allo stesso tempo. E che corrisponde con la manifestazione, nei mondi della materia e dello spirito, di qualcosa di assai sbalorditivo e sconvolgente, che potremmo definire come l'Apparizione - sul pianeta Terra - dell'Essenza Ideale dell'universo; che potremmo, pure, spiegare come la “Parusia dell'era” capace di mostrare la “Presenza del Divino” nel mondo umano.
Questa tesi trova – già dall’Ottocento - due “supporti escatologici” in due frasi di Bahá'u'lláh (contenute in: “Il Libro della Certezza”). La prima locuzione afferma che in “ogni cosa che è nei cieli e sulla terra, non è che una diretta prova della Rivelazione in essa degli attributi e dei nomi di Dio, poiché entro ogni atomo sono racchiusi segni che attestano eloquentemente la rivelazione di quella grandissima Luce”. La seconda asserzione, altrettanto esplicativa, è la seguente: “in ogni cosa s'è aperta una porta di sapienza ed entro ogni atomo si sono palesate tracce di sole”.
È indubbio, in ogni caso, che in epoca moderna, la scienza ha svelato due grandi misteri dell’universo e della vita umana. Il primo arcano, che è stato già svelato, afferisce all’energia che anima il sole. E cioè: l’atomo. Il secondo enigma, che sta per essere palesato del tutto, riguarda, invece, l'energia del cuore: che non è più inteso, solo, come un muscolo, ma anche come un “organo vitale” che funge addirittura (pressappoco) come un “cervello umano” giacché sarebbe in grado di emettere neuroni e campi magnetici, al pari di una “rete nervosa intestinale” (anch'essa dimostrata) che costituisce un “asse unico” con il resto del corpo. E che ha al centro (del suo “sistema vitale”) la ghiandola pineale: che si trova al centro della testa e agisce insieme con l'ipofisi e l'ipotalamo riuscendo, non solo, a percepire le variazioni elettromagnetiche circostanti, ma anche a emettere (grazie a dei “cristalli di calcite” che oscillano al suo interno) delle vibrazioni.
Un sistema complesso, dunque, che proietta ogni individuo in un mondo assai composito: composto – al suo interno - da innumerevoli energie e da molteplici frequenze e campi magnetici. A differenza del passato, oggi si sa pure che un campo elettromagnetico - generato dal cuore - permea, di fatto, ciascuna cellula umana. E questa scoperta scientifica non fa altro che confermare due, altre, tesi escatologiche della nostra era. La prima sostiene che “gli splendori del cielo faranno del cuore umano una miniera di ricca vena d'amor di Dio” (‘Abdu’l-Bahá, Antologia). L’altra tesi, anch’essa molto profonda come la precedente, sostiene che i “gigli dell'antica saggezza non possono fiorire che nella città di un cuore immacolato” (Bahá'u'lláh, Il Libro della Certezza).
Le tesi e le argomentazioni fin qui esposte sono solo una parte degli incanti del Terzo Millennio, che si sostanziano tutti nella misura di quelle “onde meccaniche” che generano il suono e di quelle “onde elettromagnetiche” che sono alla base, invece, sia della vitalità del corpo umano, sia dell'energia elettrica, sia degli infrarossi e sia della luce, della quale l’essere umano si è appropriato (dall’Ottocento in poi) sia in termini di sempre maggiori conoscenze scientifiche e sia, anche, dal punto di vista: metempirico, dell'elaborazione creativa e dell'appropriazione tecnologica.
L'Impressionismo, il Puntinismo e il Divisionismo pittorico sono solo alcune delle maniere che hanno consentito alla pittura di “esplodere” (dalla seconda metà dell’Ottocento) in una dimensione luminosa, ricca d’impressioni e di emozioni, dove la realtà percepita ha iniziato a fare i conti (da quel momento in poi) con l'elaborazione cerebrale, ovverosia con un “dentro” e con un “fuori emotivo” fatto di “sensazioni percepite” dall’Io (dall'esterno) e di “energie originate” dall’Es (dall'interno) da parte dell'artista.
La scoperta della fotografia precede di poco, solo di cinque anni la nascita del “Villaggio Globale”, giacché la prima consacrazione pubblica del procedimento fotografico (i cui primi tentativi furono fatti alla fine del Settecento) si fa risalire, a Parigi, al 1839 quando il deputato Francois Arago ufficializzò, in riunione congiunta, all'Accademia delle Scienze e all’Accademia delle Belle Arti, la tecnica per ottenere quello che fu battezzato come un “dagherrotipo” (vedremo tra poco di che cosa si trattava). I fautori di questa “magia” (dettata dalla “cattura della luce” e - di riflesso - delle immagini, impresse su un supporto rigido) furono due francesi: Joseph Nicéphore Niépce e Louis Jaques Mandé Daguerre.
Il secondo ebbe, in quanto a fama, di sicuro, più fortuna del primo, anche se la storia assegna a Joseph Niépce (deceduto nel 1833) il primato nella sperimentazione della camera oscura e della possibilità - derivante dall’utilizzo di questa - di fissare le immagini sulla carta. In definitiva sembra che Jaques Daguerre seppe far tesoro delle sperimentazioni effettuate da Niépce: i cui primi tentativi lo portarono a fissare l’immagine su una lamina metallica, con un'esposizione di circa otto ore. Nel 1816 lo stesso Niépce ottenne, inoltre, le prime immagini su un foglio di carta, trattata con il cloruro d'argento, salvo il fatto, però, che a causa della particolare tecnica da lui adottata non riuscì a fissare, del tutto (e quindi in maniera permanente) le immagini sul supporto da lui prescelto. Visto l’apparente insuccesso ricavato in quell’occasione (non si trattava, però, di un fallimento vero e proprio, ma solo di un tentativo) Niépce non ebbe piena contezza di quello che, di fatto, aveva già inventato: senza rendersene conto. E cioè il negativo di stampa.
E lo stesso accadde qualche anno dopo (nel 1822) quando - sempre Niépce - riuscì a fissare le immagini con una particolare tecnica incisoria effettuata su delle lastre di stagno, ricoperte di bitume di Giudea: che dopo alcune ore, però, di esposizione alla luce, finivano con l’indurirsi. In ogni caso, egli non rese subito pubbliche queste sue sperimentazioni tecniche salvo, invece, a parlarne sette anni dopo, nel 1829 (dopo una prima riluttanza a farlo e solo a causa di un dissesto finanziario vissuto) con Jaques Daguerre, il quale aveva già inventato il diorama: uno strumento in grado, vale a dire, di ottenere dalla pittura (realizzata con l’ausilio della camera oscura) degli effetti tridimensionali, capaci di dare ampio risalto alla rappresentazione dei luoghi, delle persone e degli oggetti. In quello stesso anno, nel 1829, Joseph Niépce e Jaques Daguerre firmarono un contratto di collaborazione per lo sfruttamento commerciale delle rispettive ricerche e sperimentazioni, sottoscrivendo una clausola con la quale, ambedue, s'impegnavano a non divulgare, in maniera pubblica, gli esisti delle loro scoperte. Insieme convennero, insomma, che lo avrebbero fatto solo al momento opportuno.
Nel 1833, Niépce, però, morì e ben poco riuscì ad ottenere, per la verità, il figlio Isidore, in termini di diritti commerciali sulla scoperta che fu raggiunta in un secondo tempo. Egli dovette, insomma, accontentarsi di un’esigua somma di denaro e di una modesta liquidazione, che gli fu rilasciata di Daguerre: il quale, nel frattempo, continuò - con sempre maggiore profitto - le sue indagini e le sue ricerche, fino a mettere a punto quel procedimento di stampa, al quale fu assegnato il nome (come si accennava prima) di “dagherrotipo”. Dal punto di vista tecnico si trattava di un'immagine, non riproducibile, impressa su una lastra di metallo e sviluppata con lo iodio e poi fissata con sale marino.
Questa scoperta ebbe un enorme e immediato successo, prima in Francia e poi nel resto dell’Europa e del mondo, giacché consentì alle persone meno abbienti (perlopiù borghesi) di potersi avvicinare al godimento del ritratto: una prerogativa questa che era appartenuta, fino a quel momento, solo alle classi più agiate, che disponevano di artisti, abili nella raffigurazione dei volti e delle scene di ambientazione familiare. A giudicare da tutto questo, la fotografia dimostrò di rappresentare una tecnica attraverso la quale le persone di ogni ceto e strato sociale, potevano consentirsi di fermare (nel tempo e nella storia) la propria immagine e il proprio vissuto quotidiano. Un aspetto questo che, fino a quel momento, era spettato solo ai ricchi, attraverso la pittura.
Dopo la scoperta del “dagherrotipo” un funzionario delle finanze francesi, tale Hippolyte Bayard (che già da anni sperimentava l'azione chimica di alcune sostanze su determinati supporti “toccati” dalla luce) moltiplicò i suoi sforzi di ricerca, facendo tesoro dell’invenzione sopraggiunta nel frattempo, fino a riuscire a ottenere una stampa positiva, diretta, su carta. Il 24 giugno del 1839 presentò i risultati ottenuti in una mostra fotografica, nella quale mise in esposizione alcuni suoi lavori, dai quali emergeva la sua predilezione nel riprendere gli oggetti e le persone, in maniera tale che dal contrasto tra lo sfondo scuro (in cui si trovavano le figure) e il primo piano limpido (determinato dalla sorgente di luce che colpiva le forme) finissero con l'essere esaltate le ombre diagonali, quasi in una sorta di anticipazione estetica e formale di quella che sarebbe stata poi, in pittura, la lezione cubista.
Sin dai suoi esordi la fotografia strinse, dunque, uno stretto rapporto con la pittura. Si tratta di un legame che è stato esaltato - in tempi molto recenti - dall’interesse dimostrato, da alcuni fotografi, verso il “remake”: che consente loro di avvicinarsi alla pittura, mediante la rielaborazione, in chiave fotografica, di situazioni estetiche che sono contenute in precedenti dipinti, perlopiù di atmosfera romantica, o astratta. Allo stesso modo i pittori si accostano, invece, alle “modalità espressive” di alcuni scatti fotografici, che sono oltremodo interessanti per il “cardine estetico” e per la “chiave progettuale” che è stata attuata dai loro autori.
Sta di fatto, in ogni caso, che per la natura duttile e molto agile, del mezzo tecnico di cui dispone la fotografia (ovverosia la macchina fotografica) e per l’immediatezza e la fedeltà con cui sono fissate le immagini sulla carta, il linguaggio fotografico ha azzerato quella “’ossessione oleografica” che contraddistingueva un certo tipo di pittura del passato, la quale poneva l’analogia alla realtà e la corrispondenza al mondo reale, al centro del proprio “modus operandi”. Insomma la pittura, attraverso la scoperta della fotografia ha potuto mettere da parte: quella “’oggettività realistica”, quella “dimensione imitativa” e quell’aderenza alla “tangibilità delle cose” che - per secoli e secoli - ha caratterizzato, gran parte, delle espressioni pittoriche. In breve è stato grazie alla fotografia e poi, anche grazie al cinema, che l'artista, l'operatore creativo/figurale, si è liberato, quasi del tutto, da quel “complesso di rassomiglianza” alla realtà, che ha rappresentato un tratto comune della gran parte delle forme artistiche che hanno tenuto banco - nella storia dell'arte - fino all’Ottocento. Ed è così che sono “esplose” le forme espressioniste, astratte, geometriche, surreali, selvagge, concettuali, performative e relazionali, che hanno contraddistinto le più importanti forme artistiche del Novecento.
E se questo tipo di “cesura estetica” - per così dire - tra forma e pensiero, tra figura e idea, tra immagine e ispirazione, si è potuta “consumare” si deve, in gran parte, oltre che alla nascita della fotografia, anche all'invenzione della tecnica e del linguaggio della cinematografia. Una scoperta, questa, che è avvenuta in un'epoca pressoché contestuale all’apparizione della fotografia. L’avvio ufficiale del cinema (con tutti i suoi annessi e connessi) è fissato al 28 dicembre del 1895 (e cioè una cinquantina di anni dopo l'invenzione della fotografia) quando i fratelli Auguste e Louis Lumière, hanno messo a punto un sistema, mediante il quale si riusciva a mostrare delle immagini in movimento, fissate su una pellicola in celluloide (che fungeva da supporto per degli alogenuri di argento, fotosensibili).
Il formato di quelle prime pellicole era di 35 millimetri, con quattro perforazioni rettangolari, poste sui lati di ogni fotogramma: ovverosia di ogni immagine posta in sequenza. L'invenzione di queste pellicole (che hanno subito, a mano a mano, negli anni, delle trasformazioni sostanziali) è datata dieci anni prima di quella che fu la prima proiezione cinematografica, fatta dai fratelli Lumière. E cioè al 1885, quando lo statunitense George Eastman, pioniere della fotografia, inventò la pellicola in celluloide: una sostanza fotosensibile, di natura trasparente, che fungeva da supporto per l'alogenuro d'argento, composto chimico questo, sensibile alla luce, usato per le pellicole e per le carte per stampa fotografica. Ma la sua ricerca non si fermò qui, giacché egli continuò le sue sperimentazioni in ambiti paralleli alla fotografia, fino a perfezionare, tre anni dopo, degli apparecchi che invasero il mercato fotografico e della cinematografia. E ai quali fu assegnato il nome di Kodak.
L'acutezza e la capacità dei fratelli Lumière fu di predisporre una “apparecchiatura tecnica” in grado di mostrare (in una dimensione di movimento, cosiddetta “performativa”) una serie di soggetti dinamici, “catturati” (e cioè ripresi) nel loro contesto reale (in un determinato luogo e in un preciso spazio fisico) e nell'istante in cui, queste stesse scene di vita, erano riprese: ovverosia mentre esse si svolgevano ed erano filmate, in maniera contestuale al loro svolgimento. Così era il linguaggio della cinematografia ai suoi esordi e tale è rimasto, nel corso della storia, fino ai giorni nostri, salvo a modificare, nel tempo, i “supporti tecnici” per trasmettere le immagini, di cui dispone il cinema, come anche la televisione, sopraggiunta (come invenzione) nel 1925.
Quello che si è verificato, poi, nel tempo, è stato il progressivo allontanamento dai processi chimici legati allo sviluppo della pellicola cinematografica, a vantaggio di registrazioni che dispongono, adesso, di nastri magnetici: in un primo momento con “tecnologia analogica” e che stanno, adesso, per essere soppiantati, in maniera graduale, dalla “tecnica digitale” che può contare su supporti informatici. E lo stesso è avvenuto anche per la fotografia: che dallo sviluppo e stampa in camera oscura è passata alla dimensione di ripresa e sviluppo, in chiave digitale.
Per quanto attiene il cinema, occorre aggiungere che la scoperta delle prime pellicole cinematografiche fu preceduta, nel 1832 e nel 1833 (a distanza di un anno l'una dall'altra) dalla sperimentazione di due “dispositivi ottici” di tipo meccanico. Si trattava del “fenachistoscopio” e dello “zootropio”. Il primo era uno strumento che consentiva di mostrare delle “immagini animate” grazie all'azione congiunta di due dischi rotanti, che giravano su se stessi. Solo in uno di questi due cilindri si trovava, però, la sequenza delle immagini; l'altro serviva, invece, a ingannare (attraverso il suo movimento) l'occhio dello spettatore, dando l'illusione del movimento di scena. Lo “zootropio” era anch'esso un dispositivo ottico che offriva l'illusione, allo spettatore, di assistere a un movimento continuo delle figure e delle forme, che venivano osservate attraverso un piccolo foro. Quello che si muoveva, in realtà, era un rullo scorrevole, sul quale erano impresse le immagini, che giravano su se stesse, grazie all'azione di una manovella. Niente, dunque, a che fare – in questi due casi - con quella che sarebbe stata, dopo, la grande illusione e magia della cinematografia, che sin dai suoi esordi apparve nella sua dimensione incantata, affascinante, fatata e creativa, a tal punto da essere definita come la “settima arte” che “racchiude in sé molte altre arti” così come ha spiegato il grande regista, sceneggiatore, montatore e produttore cinematografico del Novecento, Akira Kourosawa secondo il quale essa possiede in se le “caratteristiche proprie della letteratura (…) e attributi improntati alla pittura, alla scultura e alla musica".
A questo riguardo, occorre ricordare che in una recente edizione della “Storia dell'arte” (edita da Einaudi, nella collana “Gli Struzzi”) lo storico dell'arte austriaco, naturalizzato britannico, Ernst Gombrich ha aggiunto un paragrafo intero sulla fotografia. Con quest’atto si può ritenere che è finito il tempo in cui la fotografia era considerata - come diceva il semiologo francese Roland Barthes - “l'arte poco sicura”.
A distanza di oltre un secolo dalla sua nascita si può iniziare, dunque, oggi, a formalizzare una vera e propria “storia della fotografia”: dividendola per epoche e per generi creativi. Procedendo per brevi e per grandi periodi abbiamo, innanzitutto, l'età del “dagherrotipo” e poi le epoche della calotipia (o talbotipia), del collodio e quindi, a seguire, della scoperta del colore: dalle prime “lastre autochrome”, alla “stampa cibachrome”, fino ai giorni nostri in cui la fotografia si realizza non più, solo, grazie all'utilizzo della macchina fotografica classica (con tanto di pellicola al suo interno da sviluppare in una fase successiva, in camera oscura) ma grazie all'utilizzo di particolari dispositivi elettronici (si tratta di vere e proprie macchine fotografiche, all'aspetto identiche a quelle che le hanno precedute) che sono sensibili alla luce e che convertono l'immagine fotografata in un formato digitale, che è immagazzinato sul supporto di memoria della camera ottica. Il passaggio successivo è quello della stampa, che non avviene più, ripetiamo, in camera oscura, ma con l'utilizzo di macchine a getto d'inchiostro, con testina che si muove sulla superficie da stampare, in virtù di un processo elettronico che nasce - come tale - sin dall'atto della ripresa, ovverosia dello scatto fotografico, salvo poi ad arricchirsi (qualora si voglia) in una fase successiva, cosiddetta di post produzione, svolta al computer.
Alla fotografia analogica resta il primato – dobbiamo dire - di riuscire a fermare il tempo, l'attimo, l'istante, con una buona dose di casualità (legata alla scelta di diaframma e di tempo d'esposizione, da parte dell'operatore) e con un’elevata capacità tecnica, da parte del fotografo, nel riuscire a fermare il dettaglio, attraverso la migliore sommatoria possibile, che si può e che si riesce a fare, tra tutti i singoli atti che compongono una “azione fotografica” nel suo complesso: in fase di scatto prima (tanto in studio, quanto “en plein air”) e di scelta di tempo d'esposizione nella fase di sviluppo e stampa (in laboratorio) della pellicola. Vista, dunque, la complessità tecnica che si accompagna allo “scatto analogico”, la fotografia digitale (con un prototipo nel 1975 e una macchina, pronta per l'uso, nel 1981) è stata, per molto tempo, snobbata e ritenuta inferiore rispetto all’altra. Questo si deve, in gran parte, al fatto che i primi risultati di stampa digitale erano molto modesti, ma oggigiorno è stato raggiunto un grado di qualità tecnica che è pari a quello della fotografia analogica: per di più con un grado di agilità e di efficienza, della fotocamera digitale, che non fa rimpiangere, in maniera assoluta, la macchina fotografica classica.
In buona sostanza, riscontriamo che un’analoga riluttanza e ritrosia ad accettare una tecnica, un prodotto innovativo, nel campo dell'arte (e più in generale delle “rappresentazioni espressive” dell'ingegno umano) si registrò nel XV secolo, quando i pittori fiamminghi, nelle Fiandre, fecero propria, e la estesero, la pittura a olio. Primo tra tutti, in tal senso, fu Jan van Eyck: il pittore della “verosimiglianza compositiva” e della “perfezione formale”. È vero che la pittura a olio affondava le sue radici nell'antichità ma, almeno fino a quel momento, era poco diffusa e praticata, rispetto alla pittura a tempera, allora imperante, la quale fu poi “scavalcata” in maniera graduale (in quanto a numero di utilizzatori) da quella tecnica innovativa che utilizzava l'olio come legante dei pigmenti, rispetto all'uovo, alla caseina e alle gomme naturali, che sono adoperati, invece, nella pittura a tempera. Il risultato fu, comunque, che una volta accettata, la pittura a olio fu definita come la «nuova e prodigiosa maniera di colorire» capace di ottenere degli effetti di luce e di profondità, che sono difficilmente raggiungibili con altre tecniche pittoriche. Qualcosa del genere si sta verificando, adesso, tra l’analogico e il digitale in fotografia.
Senza addentrarci, ora, in questa breve trattazione, nei particolari generi che contraddistinguono la fotografia, ripercorriamo, adesso, per esaustività storica, le tappe salienti che ha avuto, in Basilicata, questa forma espressiva. Iniziamo con il dire che il Novecento ha rappresentato, in questa regione, un periodo molto esaltante e fecondo, in termini di scambi, di relazioni e di espressioni artistiche. Non solo l'antropologo Ernesto De Martino venne in Basilicata per indagare la realtà arcaica, che si annidava dietro le espressioni semantiche e fenomenologiche della cultura contadina, ma sono anche venuti filosofi, politologi e sociologi di buona fama, come Frederick Friedmann (autore di un saggio sulla miseria in Basilicata) e Edward Banfield (che a Chiaromonte indagò sul cosiddetto “familismo amorale). Da parte sua il fotografo Henri Cartier-Bresson fissò, invece, attraverso i suoi reportage, le immagini di una regione ormai avviata verso l'inurbamento e che rischiava, per questa ragione, una progressiva perdita di memoria storica. Un lavoro analogo al suo, lo svolse Franco Pinna: un fotografo in grado di leggere le dinamiche dello sviluppo sociale ed economico della Basilicata ponendo, questi mutamenti socioeconomici, in relazione con la natura aspra e selvaggia del suo territorio.
A partire, in ogni caso, dagli anni '30 del Novecento, la Basilicata è stata oggetto dell'attenzione di molti fotografi italiani ed esteri, taluni di ampia celebrità e altri meno, a partire da Giovannino Guareschi. E poi a seguire - nell'arco dei cinquant'anni successivi - da Arturo Zavattini e ancora da: Folco Quilici, Ando Gilardi, Giuseppe Rotunno, Rinaldo Della Vite, Lino Del Frà, Andrè Martin, Paul Roland, David Seymour, Joseph Koudelka e - in anni più recenti – da Guy Jannotte, Franco Fontana, Luigi Ghirri e dalla fotografa statunitense Cuchi White. In questo contesto, d'interpretazione fotografica della realtà lucana, occorre ricordare l'esperienza di scavo e di “scandaglio” etno antropologico, urbanistico e sociale compiuta, a Tricarico, a Matera e nel resto di questa provincia lucana, dal fotografo di Chiavari, Mario Cresci: il quale, dopo qualche anno trascorso in Basilicata, spaziando i suoi interessi dalle masserie della Murgia materana, ai casoni dell'alto Bradano; dalle espressioni popolari dell'artigianato artistico, ai segni del paesaggio; si è trasferito, in seguito, a Bergamo. E dal 1991 al 2000 è stato direttore dell'Accademia “Carrara” di Belle Arti di Bergamo e contestualmente - per un breve periodo, compreso tra il 1996 e il 1999 - è stato, pure, responsabile artistico di “Savignano Immagine”. All'Accademia di Brera ha insegnato, invece, fotografia.
A Mario Cresci è spettato, tra l'altro, il gravoso compito di mostrare e di documentare gli effetti del terremoto del 23 novembre del 1980, che sconquassò la Basilicata e l'Irpinia, facendo numerose vittime. E con lui a documentare quegli eventi (oltre a numerosi fotoreporter inviati dalle testate giornalistiche, nazionali ed estere) ci fu anche il potentino Aldo La Capra: il quale ha lavorato, per numerosi anni, a fianco a fianco, con l'archeologo rumeno, naturalizzato italiano, Dinu Adamesteanu. E questo è avvenuto negli anni in cui questi (dopo l'esperienza di studio e di ricerca condotta in Sicilia, tra il 1951 e il 1961) si trasferì in Basilicata: nel 1964, per dirigere la Soprintendenza per i Beni Archeologici. Per quest’ufficio, Aldo La Capra realizzò un ampio catalogo d’immagini, comprensivo di dettagliate “foto aerogrammetriche” del territorio, che gli furono richieste, in maniera diretta, da Dinu Adamesteanu (il quale credeva molto nella ricerca condotta dalla “prospezione aerea” per documentare i siti archeologici e la loro conformazione). E in questo particolare genere di fotografia, presa dall'alto, quasi a contatto con le nuvole, Aldo La Capra non fu solo un antesignano, dal punto di vista tecnico, in campo nazionale, ma mostrò, anche, ampie doti di bravura e abilità, che gli sono riconosciute, ancora oggi, guardando le sue immagini fotografiche. Aldo La Capra lavorò, inoltre, con l'Azienda di Promozione Turistica della Basilicata, realizzando il materiale fotografico necessario per l'allestimento di manifesti e dépliant: la cui qualità tipografica (all'epoca si stampava ancora con la tecnica della quadricromia) è pari a quella del fotografo, che ha realizzato quegli scatti.
Oltre che nella fotografia di reportage e in quella, professionale, realizzata con l'uso del banco ottico, Aldo La Capra ha dimostrato una capacità e un talento, una vera e propria lungimiranza culturale (di certo fuori dal comune, per gli anni '70, in Basilicata) nello sviluppare il linguaggio della fotografia artistica (della fotografia d'autore) passando dalla foto di dettaglio, alla natura morta, allo “still life”: inteso, però, non come mera rappresentazione di oggetti inanimati, ma come una “operazione semantica” capace di attribuire ai particolari (alla specificità delle forme e all’angolazione stretta delle figure) un nuovo significato, un diverso valore formale, una particolare valenza estetica; consegnando l’immagine degli oggetti, degli utensili e dei manufatti a una “dimensione affabulatoria” altamente lirica in senso creativo. Nel corso della sua attività artistica e creativa, Aldo La Capra dimostrò, inoltre, una grande perizia e una inusuale maestria tecnica nella fase di esecuzione, di sviluppo, di fissaggio e stampa (in camera oscura) delle sue fotografie: trasformando l'immagine latente, in un’immagine visibile e permanente.
La sua bravura, ripetiamo, si dimostrò, negli anni, tanto in fase di bagni chimici, quanto nell'uso dell'ingranditore (in fase di stampa) e ancor prima nell’esecuzione dello scatto fotografico: sia per scelta di diaframma e sia per calcolo del tempo di esposizione. I risultati da lui ottenuti, a questo riguardo, sono sempre stati assai perfetti: per tonalità d'immagine raggiunta e per esposizione, luminosità, saturazione di colore e contrasto. In questa maniera, egli si è dimostrato essere un grande maestro della fotografia, come riescono a esserlo in pochi. È proprio il caso di dire.
Estratto del testo "COMUNICARE DI FOTOGRAFIA: DALL'ANALOGICO AL DIGITALE: le fotografie di Edoardo Angrisani" di Rino Cardone.
© ® Rino Cardone, critico d'arte.




Commenti 0
Inserisci commento