Mostre, Milano, 15 December 2009
Opus
di Ivan Quaroni

“Amate i vostri nemici”
(Matteo, 5, 44)




“Colui che disegna”, scrive Jean Clair, “nutre il progetto di abolire la distanza fra se stesso e la realtà”1. Goethe annotava nel suo taccuino: “quello che non ho disegnato io non l’ho visto”2, volendo forse alludere al fatto che il disegno è per lui non solo la prova di ciò che ha visto, ma anche ciò che gli ha permesso di vedere. Poiché disegnare è appropriarsi letteralmente del mondo. “Di qui l’innocenza fondamentale di colui che oggi fa il progetto di disegnare.”, insiste Jean Clair, poiché “posto davanti al mondo come se questo avesse ancora qualcosa da dirgli e liberato dallo scetticismo dei suoi contemporanei, egli è di nuovo l’essere nudo e primitivo all’alba della civiltà”3.
Nei disegni di Cristina Pancini si avverte la medesima necessità, lo stesso partecipe anelito ad appropriarsi di qualcosa di sfuggente e sconosciuto. “Essendo il mio lavoro di ricerca”, afferma l’artista, “mi interessa che ciò che dico sia per me nuovo, quindi presente”. Il disegno, così concepito, diventa quindi uno strumento gnoseologico, che permette all’artista d’indagare non solo il mondo visibile delle apparenze, ma anche quello invisibile del sé, dimensioni che nella gnosi alchemica si corrispondono.
Nel linguaggio cifrato dei loro trattati, gli alchimisti si chiamano “filosofi”, ma anche “artisti”. Come gli artisti, infatti, essi sono impegnati nella sublime operazione di imitare la natura, ossia il suo modus operandi, ricalcando così le orme della creazione divina. Come puntualizza Ananda K. Coomaraswamy, “quando si afferma che l’arte imita la natura nel suo modo di operare, con natura non ci si riferisce allo spazio visibile dell’ambiente in cui viviamo”4. Non si tratta, quindi, di imitare la natura mimeticamente, secondo criteri di verosimiglianza ottica, ma di comprendere la natura delle cose.
Nel dedicarsi alla fagocitazione e rappresentazione grafica di alcune fasi della Grande Opera alchemica, Cristina Pancini assume inevitabilmente i panni dell’apprendista. Conoscendo il tema della rappresentazione, ma non la sua forma ultima, l’artista si avventura in un percorso di scoperta simile ad una discesa agli inferi con successiva risalita al purgatorio.
L’Opus alchemico è un percorso a tappe. Come insegnano le interpretazioni iconologiche di Melancholia I di Dürer, il primo gradino dell’apprendista, che gli alchimisti chiamano nigredo, ma anche melanosi o putrefactio, è associato alla terra, alla notte, alla vecchiaia, all’inverno, al piombo, a saturno e all’umore malinconico. Le fasi successive sono denominate albedo (acqua, alba, primavera, fanciullezza, umore flemmatico), citrinitas (aria, meriggio, estate, giovinezza, umore collerico) e, infine, rubedo (fuoco, tramonto, autunno, maturità, umore sanguigno).
Cristina Pancini affronta qui le due prime tappe del percorso, l’opera al nero e l’opera al bianco, muovendo dalla iniziale curiosità verso la figura archetipica dell’albero della vita.
Presente sotto forma di simbolo in quasi tutte le mitologie e le religioni, l’albero è tradizionalmente associato all’aria in quanto elemento mediatore tra la dimensione terrestre e celeste. Doppiamente radicato nel suolo e nell’etere, l’albero simboleggia anche l’asse del mondo, il centro e la totalità del cosmo e l’uomo stesso e il suo cammino dalla terra al cielo. La fotosintesi clorofilliana è quindi anche una manifestazione di trasmutazione alchemica, che opera nella chimica come nell’anima dell’individuo.
I disegni di Cristina Pancini riproducono bizzarre forme arboree, dove l’elemento rizomatico e radicale si espande fisicamente e simbolicamente, fino a innestarsi in altre forme organiche. Nascono così figure ibride, perfino raccapriccianti, dove la natura vegetale, animale e umana si mescolano per dare forma a inquietanti epifanie. La prima forma ibrida è quella rappresentata dall’innesto antropo-fitomorfo, la donna-albero che evoca la primordiale androginia, figura cara all’immaginario alchemico, collegata al principio della conjunctio oppositorum. “Il superamento del dualismo sessuale”, ricorda Arturo Swarz, “rende possibile conciliare ogni altra antinomia, compreso quella della vita e della morte”. Infatti, “Il riconoscimento dell’altro da sé richiede consapevolezza della natura dualistica dell’individuo e, in definitiva, l’identificazione con l’eterno androgino primordiale, il rebis (res-bis = doppio) della tradizione alchemica, che rappresenta la proiezione umana della pietra filosofale”5. Quel lapis philosophorum, di cui il lapis della Pancini è un riflesso terreno.
Nelle altre ibridazioni che popolano le carte dell’artista, il collegamento con la simbologia alchemica si fa più stringente. Nelle riproduzioni iconografiche e nei testi tradizionali di alchimia, dominano le figure di uccelli, che come gli alberi, sono anelli di congiunzione tra la realtà terrena e il regno celeste. In particolare, la sequenza degli uccelli (corvo, cigno, pavone, pellicano e fenice) corrispondeva alla sequenza delle operazioni alchemiche in laboratorio. Pancini associa dunque il corvo alla nigredo, che è appunto la prima fase della Grande Opera in cui la materia deve raggiungere il grado di putrefazione attraverso un processo di riscaldamento forte e rapido (via secca). Quando, invece, la putrefazione è raggiunta per mezzo di un riscaldamento lento e prolungato (via umida), allora l’animale rappresentato è il rospo oppure l’Ouroboros (il drago che si morde la coda). Questo è il motivo per cui nei disegni della Pancini dedicati all’Opera al Nero compare anche la mostruosa figura di un rospo defecante girini in una grande ampolla.
Seguendo la tradizione, nei disegni dedicati all’Opera al Bianco, l’artista adotta un altro volatile simbolo dell’androginia, il cigno, il cui lungo collo assume valenze falliche, in contrasto con le femminee sinuosità del corpo. Il cigno, con il quale la putrefazione volge in calcinazione nella via umida, è sostituito dall’aquila bianca nella via secca. Nell’albedo, l’individuo si purifica, divenendo un vigile osservatore di se stesso. Ciò che l’apprendista non intuisce e che invece la Pancini sembra aver compreso, è che nigredo e albedo sono processi simultanei, mentre si procede con la putrefazione, avanza anche la calcinazione. Morendo, si rinasce. Ecco perché nei disegni del’artista spesso il corvo e la colomba (così come le loro varianti rospo, cane, colomba e rosa bianca), coesistono in forme organiche che riproducono il concetto di conjunctio oppositorum. I suoi ibridi sono riflessi del rebis, in cui è organicamente trascesa ogni dualità. La Pancini ci si dedica con cavillosa acribia, sostando con perizia da calligrafo sui particolari del piumaggio, sulla nodosa contorsione dei rizomi, sulla consistenza dell’epidermide e sulle numerose soluzioni d’innesto tra organismi vegetali, animali e umani. Non si tratta, però, di uno sfoggio di virtuosismo, ma, come afferma lei stessa, “di una volontà di esattezza e cura dell’idea, di un’indagine che voglio tenda sempre più verso la profondità delle cose”.
Sebbene Cristina Pancini prenda le distanze dall’arte Surrealista, in special modo da quella che promuove il disegno automatico come libera forma d’espressione delle istanze inconsce, il suo immaginario iconografico finisce per richiamare in molti modi l’allucinata visionarietà dei seguaci di Breton, da Max Ernst a Yves Tanguy. Ciò che distingue il lavoro della Pancini da quello di un qualunque tardo surrealista, a parte l’indiscutibile qualità tecnica, è la sua attitudine concreta, diciamo pure politica, a non perdere il contatto con la realtà. Un atteggiamento simile a quello di artisti come il canadese Marcel Dzama e l’americana Amy Cutler, esponenti di una rinata sensibilità folk che usa una figurazione fantastica e surreale come cruda metafora della realtà. Chi scambia l’universo immaginifico dell’artista per una variante contemporanea della rêverie simbolista e decadente commette dunque un errore di valutazione, perché il mondo dell’immaginale cui essa si riferisce è l’anticamera platonica del mondo fenomenico. Ciò che nasce nell’immaginazione è per l’artista (o dovrebbe essere) il preludio di ciò che viene successivamente agito sul piano concreto. Nel simbolismo decadente, invece, il sogno, l’incubo, l’allucinazione sono riflessi di una condizione di disagio esistenziale, molto simile ad un processo di putrefazione cui non faccia seguito la calcinazione dell’Opera al bianco.
Tutti i disegni di Cristina Pancini dedicati alle prime due fasi dell’Opus riguardano, in definitiva, la possibilità dell’individuo di evolvere nell’arte come nello spirito ed in ogni altro piano dell’esistenza. In Il mio cuore messo a nudo, Baudelaire sintetizzava questa scoperta con una epigrafica sentenza: “Della vaporizzazione e della concentrazione dell’Io. Tutto sta lì”.

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